Sempre Attuale

Il buon vecchio arrotino

di Simone Bodini

Gusa e gusa, cussì ‘l taja e cussì ‘l sbusa, cussì ‘l lustra ‘sto cultel”. Che sarà mai questa frase? Un misterioso proverbio di un’antica lingua straniera? Niente affatto. Trattasi invece di un vero e proprio tesoro dell’italianità, un breve passo tratto dalla “Serenata del Molèta”, novella semisconosciuta della letteratura dialettale lombarda che racconta le vicende di un arrotino di città, sempre in viaggio per le strade in cerca di lavoro, affilando e lustrando arnesi da taglio da vendere al miglior prezzo, tanto al facoltoso borghese quanto al povero proletario. L’intera opera, rimasta anonima come gran parte delle poesie e dei componimenti in dialetto, è scritta in un linguaggio semplice e dall’astrusa musicalità, che rende più che mai il senso di tradizione ed appartenenza a una terra, tema fondante degli autori dialettali assieme a quello dell’amore, molto spesso trattato in modo spiccio e realistico, con poche metafore dirette ma efficaci. Ad esempio, mentre è impegnato a lavorare sotto una pioggia incessante, l’arrotino vede una luce accesa alla finestra di una casa e pensa subito alla sua innamorata, evidentemente di famiglia benestante, fortunata a stare al caldo e a non bagnarsi come fa lui. Pur descrivendo una storia romanzata, la “Serenata del Molèta” fornisce una testimonianza chiave per comprendere meglio una figura simbolica della nostra storia, retaggio di una professione ormai svanita nel tempo ma presenza fissa per la comunità fino a metà del secolo scorso. L’arrotino era essenzialmente un mestiere per poveri, come chiarisce la novella stessa, un lavoro stagionale che comprendeva diverse mansioni e che non assicurava un guadagno stabile, tant’è vero che molti arrotini si riducevano a bivaccare per strada o sotto i portici cittadini, non avendo abbastanza soldi per pagarsi una stanza o affittare un appartamento. Il suo documento di identità non era altro che la “mola”, l’inconfondibile attrezzo che si portava dietro per eseguire i suoi lavori, consistente in una normale carriola da carpenteria con una ruota montata sopra, azionata da un pedale di legno chiamato stanga che azionava il meccanismo smerigliatore su cui si facevano passare le lame da arrotare. In seguito si optò per sostituire la carriola con una bicicletta, atta a rendere più facili gli spostamenti nonostante il notevole peso delle attrezzature, munita comunque dell’immancabile ruota per affilare coltelli, forbici, lamette o attizzatoi. Anche qui il procedimento di smerigliatura restava invariato, con la stanga che azionava a sua volta, oltre alla ruota della moltiplica, una piccola mola di pietra attraverso una corda perpetua o una cinghia, la quale veniva a contatto con la lama e la affilava, provocando le celeberrime scintille davanti alle quali i bambini restavano incantati. L’unico accorgimento che il Molèta doveva attuare era inumidire con dell’acqua la pietra smerigliatrice, affinché l’operazione si potesse svolgere al meglio e senza imperfezioni. Il mestiere dell’arrotino trova diffusione perlopiù in Italia e nelle zone rurali d’Europa, fino a spostarsi nelle zone urbane delle capitali con tante piccole carovane itineranti formate non solo dalla mola, bensì dai figli e dai giovani aiutanti degli arrotini più anziani. In alcuni casi, infatti, i tanti Molèta che affollavano i sentieri cittadini arrotondavano lo scarso stipendio fornito dalla gente vendendo utensili da taglio rimessi a nuovo con tanto sacrificio e duro lavoro, per non parlare delle mansioni più redditizie tipiche di novembre come uccidere i maiali per ricavarne la carne da vendere successivamente ai macellai o i compiti primaverili come tosare le pecore, rigorosamente con arnesi manuali e privi di batterie. Parliamo dei primi del Novecento, dopotutto. In tempi di crisi l’arrotino si riduceva a vendere persino la polvere del ferro ricavata dalla smerigliatura, oggigiorno considerata un banale scarto del tutto inutile ma molto ricercata all’epoca per la pratica medica tipicamente popolare della sideremia. Da qui il detto popolare “fàa el molèta”, vale a dire “fare buona derrata, scemare i prezzi, fare economia”, chiaramente nel modo più onesto e trasparente possibile. Le condizioni precarie e la scarsa disponibilità economica, ad ogni modo, non influenzavano affatto la reputazione dell’arrotino: la popolazione rispettava ampiamente la figura del Molèta, lo ammirava per la sua intraprendenza e sorrideva al vederlo passeggiare col suo armamentario mentre fumava tabacco da tre soldi nella sua pipa rigorosamente in legno. A dir la verità, troviamo tracce di arrotini operanti anche negli Stati Uniti, nel Canada o nell’Australia del periodo postumo alla seconda rivoluzione industriale, eppure, la professione ebbe una vita molto più breve e scomparve presto sotto la morsa della produzione di massa automatizzata. Nel vecchio continente gli arrotini prosperarono fino ai primi anni ottanta circa, quando ufficialmente si registrò la scomparsa dei Molèta dalle strade italiane, e quindi cremonesi. Grazie a gruppi di appassionati e associazioni di rievocazione storica, gli arrotini hanno conosciuto una nuova vita sotto forma di rappresentazione di una storia ormai lontana, ma che noi tutti, cari lettori di Maninians, non dobbiamo e non vogliamo affatto dimenticare.